Napoli ci appare come una condizione emblematica della modernità, un miscuglio inestricabile di ascese e di cadute, con tante trasversalità che l’attraversano da tutte le parti; da un lato, luogo della gloria e dall’altro, luogo del martirio, in una trama che non ha mai confini netti, bensì contaminazioni che richiedono una verifica dei poteri del pensiero critico e delle sue capacità analitiche, messe a dura prova dall’attraversamento di luci e ombre in una reciprocità e velocità da sembrare un video musicale, mentre è realtà, in carne e ossa, pelle e pellicola. Il secondo dopoguerra ha portato alle estreme conseguenze gli sperimentalismi
dell’arte contemporanea, anche nell’ambito di un iperpoliticismo che ne è stato punto di riferimento, ma anche il polo di distorsione, nella tensione di un impegno rivoluzionario che ha finito per diventare auto referente, ma paradossalmente liberatorio di tante scuole e di tante tendenze, avversarie tra di loro, quanto concordi nel considerare l’arte e la letteratura, tradizionali, come fattori superati dal mentalismo fantastico, arrivando a considerare lo stesso itinerario sperimentale come obiettivo dell’arte, mentre l’arte come oggetto, come oggettività, viene condannata come alienazione e considerata una reificazione.
Nel trionfo dell’arte concettuale, fatta di minimalismo, di gesti, segni, quasi invisibili, tutto è imploso in un ante e in post, che ha fatto scattare quella che nel novecento è stata una forte pendolarità, tra processi freddi e processi caldi, dal Futurismo dei primi del Novecento all’astrattismo degli anni Cinquanta, alla Pop art degli anni Sessanta, dal Concettualismo pauperistico degli anni Settanta, ad un ritorno alla pittura, alla scultura, al cinema e al teatro degli anni Ottanta.
Un’esperienza che non è pura illusione, ma che si misura con le nuove connotazioni di ricchezza e povertà, di mobilità sociale e di stagnazione.
Una stagione di grande cultura, produttività ed economia che ha fattodi Napoli, non più solo la città dolorosa di Anna Maria Ortese o l’evanescente del folclore dei vicoli, ma un crocevia mondiale a specchio con New York, Parigi e le grandi metropoli del mondo, attraverso la vita e la poetica di singolari personaggi che hanno segnato un’epoca, imponendo uno stile che ha affermato una concezione di vita.
La collezione di opere in mostra di autori ampiamente storicizzati rappresenta il punto più alto di una dialettica che ha visto Napoli al centro della fenomenologia
dell’arte contemporanea dai tempi delle cosiddette Avanguardie Storiche. Jackson Pollock, Joan Miró e Lucio Fontana presentano un tratto comune
inequivocabile: l’avanzamento. Mirò irrompe con semplicità e forza segnica nella scomposizione della figura. Pollock si allontana, per primo, dai tonalismi da cavalletto nel trionfo della pittura d’azione. Fontana taglia la tela come prova di un irriverente atto mentale. Proprio con il concetto di avanzamento si misura Peppe Capasso con una delle sue sculture sceniche, che questa volta prende il titolo di Didone abbandonata.
Mettere in mostra “Mirabili fantasie” significa verificare la forza straordinaria di un fronte dell’intelligenza e del lavoro, coniugato con l’arte e la tecnologia,
in sintonia con una categoria moderna per eccellenza che è l’arte, che sono gli artisti, forti e inguaribili assertori di una unione sacra tra teoria e prassi, tra concettualità e tecnica, continui fondatori e rifondatori della loro genealogia di nomadi ed erranti, vocati a dare luce ai grandi spazi e ai segreti luoghi della vita; con essi si devono misurare sociologi e urbanisti, architetti e paesaggisti, per fare in modo che il nostro destino non sia quello dei tristi custodi di un passato grande di cui s’è persa la chiave, ma di protagonisti pronti a segnare il proprio passaggio, con forme durature di monumenti del nostro tempo.